Relazione con i predatori

PROBLEMATICHE E CRITICITÀ INERENTI LE PREDAZIONE DA FAUNA SELVATICA/RINSELVATICHITA

 

Introduzione

Nel corso di decenni, i pastori hanno sapientemente selezionato razze autoctone, soprattutto ovi-caprine, fortemente adattate al territorio. Spostamenti stagionali (transumanze, monticazione e de-monticazione) hanno permesso agli allevatori di animali allo stato brado e semi-brado di mantenere una quota di bestiame relativamente alta, sfruttando in modo ecosostenibile le risorse naturali disponibili (biomassa vegetale), anziché foraggi e mangimi provenienti dall’esterno. Molte delle razze selezionate sono considerate rare, e ad alta tipicità territoriale.  Ad esempio, alcune razze tipiche del comprensorio aurunco e ciociaro (basso Lazio) sono già incluse nell’allegato n.6 del PSR 2007-2013 della Regione Lazio “Tabella razze animali minacciate da erosione genetica e loro areali”.

Nel corso di quest’ultima decade, il patrimonio genetico e la biodiversità che i pastori cercano di tutelare sono a rischio in diverse realtà del territorio nazionale, anche a causa della presenza e dell’aumento della fauna selvatica e rinselvatichita. Il fenomeno è particolarmente evidente e può raggiungere livelli di criticità importante qualora ci siano territori in cui i predatori sono in espansione. Pur essendo evidente nel nostro territorio la necessità di tutelare specie quali il lupo appenninico (Canis lupus italicus), l’orso bruno (Ursus arctos) e la lince europea (Lynx lynx) (specie tutelate a livello Nazionale dalla legge 157/92 e a livello Europeo da direttiva 92/43/CEE). La presenza dei grandi carnivori in aree in cui è presente l’allevamento di piccoli ruminanti genera conflittualità più o meno accese a seconda delle regioni interessate. Queste problematiche non correttamente gestite esacerbano il conflitto tra zootecnia e predatori aumentando così i rischi per la conservazione dei grandi carnivori e non portando soluzioni efficaci per la protezione degli armenti.

Una di queste problematiche, particolarmente d’attualità e condivisa, riguarda la presenza di meticci/ibridi di lupo e cane. Il fenomeno degli accoppiamenti tra lupo e cane (in genere una lupa femmina isolata dal branco di origine e cani vaganti maschi) si riscontra in modo preponderante soprattutto in quelle aree/regioni ove coesistono una situazione di scarso controllo del randagismo e la presenza di branchi di lupi destrutturati o con femmine isolate in dispersione. Il problema anche in questo caso è a duplice taglio: da una parte l’ibridazione può diventare un rischio per la specie lupo, dall’altra la presenza di elevati numeri di cani vaganti rappresenta un pericolo in più per gli animali al pascolo[1].

Problematiche Specifiche

Con riferimento ai danni causati da fauna selvatica, è diventato sempre più difficile per gli allevatori ottenere degli indennizzi adeguati, in altre parole determinati sulla base di principi equitativi, e che corrispondano a un valore di riferimento reale rispetto all’entità del danno subito. Ad esempio, gli indennizzi spesso sono concessi solo per i capi ufficialmente registrati entro i tempi prescritti dalla legge. Pertanto la ricorrenza di predazioni, prima dei tempi previsti dalle normative, spesso non è soggetta ad alcuna forma d’indennizzo.

Inoltre l’indennizzo non tiene mai conto del danno indiretto che un evento predatorio può provocare in aggiunta a quello che si riferisce alla perdita degli animali. Molti allevatori lamentano danni alle produzioni (cali della produzione lattea, aumento incidenza aborti) degli animali in seguito agli attacchi da predatori. Questo danno indiretto raramente è stimato.

Generalmente, i risarcimenti per danni da fauna selvatica, sono riconosciuti soltanto a chi è ufficialmente registrato come ‘coltivatore diretto’. Ciò significa che piccoli imprenditori, con pochi capi per uso familiare e modesti appezzamenti di terreno, non hanno diritto a richiedere alcun risarcimento per i danni subiti.

Alcuni pastori, a causa delle continue predazioni, si vedono costretti a tenere in stalla parte del bestiame per periodi più lunghi di quelli previsti nell’ambito di un regime di allevamento brado/semi-brado.  I carnivori causano anche danni indiretti alla gestione delle greggi: aumento dei costi, custodia, utilizzo di sistemi di prevenzione etc. Il cambio di modalità di allevamento e il confinamento degli animali in ambienti più ristretti può portare ad un aumento delle problematiche di tipo sanitario, come ad esempio una maggiore diffusione di agenti infettivi, con un conseguente calo delle capacità produttive e aumento dell’utilizzo di farmaci all’interno dell’allevamento. Inoltre tali pratiche comportano costi aggiuntivi per l’acquisto di foraggi (basti pensare a chi pratica il biologico) e mangimi. L’allevamento in stalla può comportare anche la modifica di alcune caratteristiche tipiche delle razze stesse. Ad esempio, capre con palchi di corna possenti, rappresentano una minaccia per i propri simili, soprattutto se confinate all’interno di un ambiente ristretto (stalla).  Alcuni pastori, per ovviare al problema, iniziano a selezionare animali senza corna e a modificare, pertanto, alcune delle caratteristiche morfologiche di razze già registrate come ‘rare’ e ‘a rischio di estinzione’.

Spesso i processi tecnici e amministrativi per la richiesta dei risarcimenti soffrono di lunghi tempi di evasione. Le carcasse degli animali sono velocemente consumate da varie specie necrofaghe stessi come gli stessi lupi, i cinghiali, cani vaganti, uccelli etc. rendendo così difficile non solo l’attribuzione del danno a un evento predatorio, ma la sua stessa valutazione in termini monetari. La mancanza di tempistiche certe di pagamento in alcune amministrazioni diventa un problema di primaria importanza.

 

Proposte

Pertanto si suggeriscono le seguenti proposte:

  • Contribuire con integrazioni foraggiere e monetarie che potrebbero rendersi necessarie a seguito dell’adozione di attività di custodia e prevenzione del gregge. Come dimostrato da ricerche scientifiche (Fico R., Morosetti G., Giovannini A. 1993 The impact of predators on livestock in Abruzzo Region. Health and management of free-ranging mammals, O.I.E. Scientific and Technical Review, Vol. 11 (4), December 1992) la morte per predazione a carico dei giovani puledri e vitelli potrebbe essere ridotta del 40% se tali animali fossero immessi sul pascolo non subito dopo la nascita ma qualche tempo dopo. In alcune regioni (Piemonte) è stato possibile reperire fondi di questo tipo tramite il Piano di Sviluppo Rurale.

  • Concedere agli allevatori le dovute autorizzazioni per farsi certificare le cause di morte per predazione anche dal proprio veterinario di azienda o da un veterinario libero professionista, nel caso in cui i veterinari dell’ASL o delle aree protette siano impossibilitati a compiere tempestivamente l’accertamento. I veterinari addetti all’accertamento dovrebbero dimostrare comprovate competenze (es. acquisite durante specifici corsi di formazione) al fine di poter determinare con accuratezza l’esatta causa di morte, verificare eventuali irregolarità, e avere una casistica precisa dei casi di predazione al fine di avere dati su cui basare strategie della gestione a lungo termine.

  • Incoraggiare i servizi veterinari e i veterinari impiegati da Enti Parco, etc. a eseguire analisi del DNA sulle vittime di predazione. Tale tipo di analisi è molto costoso e potrebbe andare a integrare l’esame post mortem effettuato dal veterinario in quei casi in cui ci siano le condizioni per eseguirlo (ad es. non sia passato troppo tempo dall’evento predatorio). Il problema oltre alla logistica è il finanziamento di tali analisi.

  • Ripristinare lo stato di coltivazione dei terreni e coprire spese concernenti la ricostruzione e/o riparazione d’impianti permanenti (muri a secco, muri di sostegno, di strade poderali, interpoderali e vicinali, canali di scolo, etc.) danneggiati da cinghiali.

  • Continuare l’applicazione della legge 281/91 in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, promuovendo – tra l’altro – censimenti affidabili dei cani che hanno già un proprietario, con la loro iscrizione all’anagrafe canina e necessaria applicazione del microchip identificativo. Promuovere tutte le attività legate alla corretta detenzione e identificazione dei cani presenti in allevamento. In parallelo, mettere in atto strumenti efficaci per la cattura e il trasferimento di meticci e cani vaganti in apposite strutture, e/o garantire la restituzione dei randagi a eventuali proprietari, con l’applicazione della sanzione previste.

 

  • Risarcire nei tempi più brevi possibili i danni da predazione, a fronte della presentazione delle perizie medico-legali certificanti la causa della morte del capo di bestiame[2]. Valutare la possibilità di risarcire anche il danno indiretto come la perdita del latte e quella causata da aborti di animali da pascolo a causa dello stress subito a causa di attacchi ripetuti da parte di specie selvatiche e non. Tali eventi spesso causano un periodo di fermo dell’allevamento e la conseguente mancanza di reddito.

  • Farsi carico (amministrazioni locali) del costo dello smaltimento delle carcasse di animali uccisi dai predatori. In alcune Regioni questo è già previsto, ma spesso i tempi di rimborso del costo di smaltimento (che è pagato immediatamente dall’allevatore) sono troppo lunghi perché siano sostenibili da parte dell’allevatore[3].

  • Istituire dei gruppi di coordinamento per la gestione e il monitoraggio che facciano capo presso la Regione (assessorato agricoltura) o l’ente Parco (se esistente) costituiti da multicompetenze settoriali (primario, secondario, terziario, terziario avanzato, Enti di ricerca applicata e il Terzo settore).

 

  • Implementare corsi di formazione per gli allevatori sulle principali tecniche di prevenzione dei danni da predatori. Promuovere quindi (anche economicamente) la buona pratica dell’allevamento di qualità e locale con l’utilizzo di sistemi di prevenzione dagli attacchi da lupo in modo da premiare gli allevatori che difendono le greggi con questi strumenti e hanno pochi danni ogni anno.

Nel caso delle problematiche legate ai cinghiali si possono inoltre prefigurare attività quali:

  • Approvare piani straordinari per la riduzione della popolazione di cinghiali. Ad esempio, nei nuovi calendari venatori, il periodo della caccia al cinghiale dovrebbe essere prolungato quanto più possibile, mettendo in atto disciplinari per agevolare le attività di caccia di questa specie. E’ altresì essenziale estendere assistenza legale per eventuali impugnative (in merito a danni subiti da fauna selvatica), non solo a favore di coltivatori diretti ma anche di singoli imprenditori agricoli. Reprimere fortemente il foraggiamento illegale che è sistematicamente effettuato sulla specie durante i periodi critici, che aumenta le probabilità di sopravvivenza delle nidiate e quindi della popolazione.

 

  • Attuare e armonizzare normative regionali per autorizzare la cattura, macellazione e vendita dei cinghiali.

Si richiede, altresì, agli Enti preposti – di favorire e incrementare ricerche scientifiche su larga scala circa la presenza, densità e impatto di canidi e cinghiali, necessarie per un’efficace comprensione del fenomeno e per l’attuazione di piani di gestione volti a favorire soprattutto i territori a vocazione pastorale e dove l’allevamento brado e semi-brado è parte integrante del tessuto socio-culturale.

Si propone, una riesamina di tutte le normative europee la cui attuazione inficia negativamente sulla quantità dei fondi per indennizzi erogati al settore agricolo, nelle varie regioni italiane.

[1] Unitamente ai danni causati al patrimonio zootecnico, si aggiungono quelli causati alle colture agricole dall’incremento esponenziale dei cinghiali (Sus scrofa) che negli anni 50, quando la specie era ridotta ai minimi termini, sono stati incrociati con individui provenienti dall’Europa dell’est, generalmente di taglia maggiore e più prolifici. Alla gestione attuale della specie, consegue una presenza massiccia di questi suidi sul territorio nazionale, che non solo inibisce le coltivazioni di sementi locali, ma provoca danni ingenti alle aziende agricole mediante distruzione e\o rivoltamento del cotico erboso, e devastazione dei campi messi a coltura. La presenza dei cinghiali riduce anche le superfici pascolabili, in due momenti importanti dello sviluppo dei prati (primavera e autunno).

[2] A questo riguardo Comuni e Servizi Veterinari dovrebbero farsi carico dei danni causati da cani vaganti/randagi [sentenza Corte di Cassazione, 3° Sez. Civ. n. 2741/15].

[3] Alcune regioni (Umbria ad es) già fanno questo. Il problema sono sempre i tempi.